Il Campo de Piedra Pomez
La pista è un continuo susseguirsi di terra, sabbia e rocce taglienti che affiorano minacciose all’improvviso come lame pronte a fendere i copertoni dei fuoristrada.
Poi le tracce da seguire si perdono in un’ampia vallata di ghiaia per ritrovarsi infine in un unico solco ai piedi di una ripida collina che risaliamo prendendo la rincorsa per evitare insabbiamenti.
Intorno a noi vulcani, colate laviche e montagne policrome a sottolineare la ricchezza di metalli di tutto l’altipiano. La regione di Antofagasta è considerata una delle aree con la maggior presenza di crateri al mondo; dai più antichi datati 23 milioni di anni fa, a quelli che vengono definiti “baby vulcano”, in quanto nati “solo” 100.000 anni fa.
Verso ovest, a definire la linea dell’orizzonte nei pressi del confine con il Cile, il volcano Blanco, l’artefice di ciò che si presenta di fronte a me. La sua ultima eruzione risale a 10.000 anni fa, ma la creazione di questa sorta di oceano in burrasca solidificato è avvenuta 126.000 anni fa.
Di questa parte di mondo tanto remota mi parlò un amico al suo rientro da un viaggio in Sud America. Ricordo il mio silenzio nel far scorrere le sue fotografie di panorami che sembravano appartenere ad altri pianeti. In quegli istanti ero certo che un giorno sarei partito per esplorare l’intera regione.
Scendo dall’auto, mi guardo intorno disorientato dall’unicità dello scenario. Rivolgo lo sguardo a nord, dove ai piedi di una catena montuosa lunga qualche centinaio di chilometri vedo affiorare una striscia bianca parallela a quella del Campo de Piedra Pomez dove mi trovo ora. In mezzo, una distesa larga una cinquantina di chilometri di ghiaia grigia riportata dal vento che copre gran parte di quanto eruttato dal volcano Blanco. Forse un giorno il vento la porterà via, facendo affiorare l’intera colata lavica in uno spettacolo ancora più imponete.
Voglio fotografare ma non so in quale direzione indirizzare il mio obiettivo. Inizio a camminare verso sud per allontanarmi dalla pista. Ripenso al racconto della mia guida di una donna si perse tra le alture e gli avvallamenti della pietra pomice. La ritrovarono il mattino successivo in stato di semi assideramento.
Alcune formazione ricordano le chiglie rovesciate di motoscafi supersonici, altre sembrano teste di insetti giganti, altre ancora le fantasiose astronavi dei cartoni animati giapponesi. Provo la sensazione di trovarmi in un ambiente primordiale, sospeso tra fantasia e realtà, non lontano da quando tutto ebbe origine.
Vago senza meta dopo aver preso come riferimento uno dei rilievi maggiori che cerco di non perdere di vista. Mi concentro sulla luce, sui giochi delle ombre, sulle forme astratte, sulla presenza delle nuvole che disegnano il cielo, sulle crepe del terreno che viste dall’alto creano un gioco perfetto di incastri. Raggiungo una roccia che emerge verso est. Dalla cima ho una visione totale della colata lavica. Cambio obiettivo, scatto altre foto.
Mi sembra di essere al centro di un immenso ghiacciaio antartico modellato dai venti. Non mi sono mai sentito così minuscolo.
Il momento dello scatto
Raggiunta una delle alture maggiori mi guardai intorno in cerca di qualcosa che potesse trasmettere l’emozione che provavo in quel momento. Decisi di utilizzare un teleobiettivo per “schiacciare” tutte quelle formazioni. La direzione dell’obiettivo fu vincolata da quella della luce del sole. Inquadrando esattamente in direzione opposta avrei azzerato tutte le ombre creando un’immagine piatta. Ruotando verso destra o verso sinistra, aumentava la sensazione di tridimensionalità del panorama grazie alle ombre che risultavano sempre più accentuate. Trovai il giusto compromesso proprio in direzione di una nuvola che movimentava ulteriormente l’immagine. Il bianco accecante del terreno avrebbe potuto rappresentare un problema per il calcolo dell’esposizione, così feci riferimento all’azzurro del cielo che in determinate situazioni può essere preso come riferimento come il grigio neutro con una leggera sotto esposizione. Per avere buona profondità di campo (tutto a fuoco) impostai un diaframma f 13. La luce accecante dei 3.000 metri e la totale assenza di vento, mi permisero di scattare a mano libera senza rischiare di cadere nell’errore dell’effetto mosso.
Dati tecnici
Data: 02 Dicembre 2012
Corpo macchina: Nikon D2x
Obiettivo: Nikon 80/200 f2,8
Lunghezza focale al momento dello scatto: 112 mm.
Apertura diaframma: F 13
Tempo otturatore: 1/200
Compensazione esposizione: – 0,7
Sensibilità sensore: ISO 200
Modo di ripresa: A (priorità di diaframmi) calcolo esposizione in direzione del cielo.