“Cerro Torre”, la montagna impossibile
In Patagonia i siti web dedicati alle previsioni del tempo non riscuotono grande successo per via della bassissima attendibilità dovuta all’imprevedibilità del tempo, che da quelle parti rappresenta l’unica certezza. Chi arriva a El Chalten, per visitare il Parque Nacional los Glaciare, sa bene che dovrà svegliarsi presto al mattino, ascoltare se la pioggia si sta abbattendo contro le finestre e, in caso contrario, uscire per verificare le condizioni del cielo. Solo allora deciderà se armarsi di bastoncini, panini e zaino e partire, oppure tornare sotto le coperte.
Il sentiero che raggiunge la laguna Torre, ai piedi dell’omonima montagna, non è particolarmente impegnativo, si sviluppa su una distanza di circa 9 km per un dislivello di 350 metri. In prossimità della laguna si trova un cartello in legno che, oltre a fornire indicazioni, comunica la forte presenza dell’alpinismo italiano nella regione. Dirigendosi a sinistra si raggiunge il campeggio De Agostini, proseguendo verso destra si arriva al mirador Maestri.
Alberto Maria De Agostini fu considerato il primo esploratore delle montagne patagoniche. A inizio Novecento tracciò l’intera regione e inviò le mappe al fratello Giovanni, fondatore del celeberrimo Istituto Geografico De Agostini. Alberto Maria, missionario salesiano nato a Pollone (Bi) nel 1883, arrivò in Sud America nel 1910 con l’intento di aiutare gli ultimi nativi delle regioni più australi del pianeta. Questi erano stati decimati dalle malattie importate dall’Europa dai conquistatori e dai soprusi e dallo sfruttamento subiti da parte dei grandi allevatori che avevano occupato a regione. Oggi in Cile padre De Agostini è considerato al pari di un eroe nazionale per la sua attività di missionario e per le spedizioni organizzate lungo la cordigliera patagonica nel corso dei trentatré anni della sua permanenza in terra australe.
Il punto panoramico più elevato nei pressi della laguna Torre è invece stato dedicato a Cesare Maestri, uno dei più famosi alpinisti italiani. Tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta la sua figura, giudicata non sempre cristallina, fece discutere il mondo. All’epoca il Cerro Torre rappresentava un’ossessione per gli alpinisti professionisti; tutti volevano essere i primi a scalare quella che era considerata “la montagna impossibile”. Maestri partecipò alla prima spedizione organizzata dal trentino Bruno Detassis nel 1958, ma a causa di problemi logistici furono costretti ad abbandonare la sfida. L’anno successivo Maestri si unì a Toni Egger e insieme tornarono in Sud America per tentare nuovamente la scalata. Una settimana dopo la loro partenza dal campo base Maestri fu ritrovato ai piedi della montagna in stato confusionale. Toni Egger risultò scomparso insieme alla macchina fotografica e al rullino che avrebbe dovuto testimoniare le parole di successo pronunciate successivamente da Maestri. Alcuni dettagli poco chiari del racconto dell’alpinista trentino sull’ascensione scatenarono numerose discussioni a livello mondiale. Così nel 1970 Maestri decise di tornare in Patagonia per mettere a tacere tutte quelle voci che criticandolo non gli avevano creduto. Per scalare l’ultima parete, la più impegnativa, Maestri fece uso di un compressore per piantare i chiodi a pressione nel granito, tecnica sicuramente efficace, ma eticamente discutibile. L’impresa terminò giusto in prossimità della calotta di ghiaccio che ne ricopre la cima e con la parete crivellata come un groviera. A quel punto per il capo spedizione l’impresa poteva essere giudicata conclusa in quanto, a sua detta, il ghiaccio non era da considerarsi parte della montagna. A testimonianza incontestabile del successo, il compressore venne abbandonato alla parete a trenta metri dalla cima, fissato ad uno dei chiodi utilizzati per la risalita.
Percorro il sentiero di avvicinamento al lago che alterna tratti in piano a ripide salite. Attraverso boschi color smeraldo di lenga (Nothofagus pumilio) e ñire (Nothofagus antarctica), entrambe specie della famiglia dei faggi australi. Raggiungo una distesa desolata di tronchi bassi, resi scuri dal processo di autocombustione, per poi iniziare una nuova rampa stretta di rocce fisse e terra. A destra spuntano di tanto in tanto le pareti granitiche del monte Fitz Roy, che con i suoi 3.405 metri di altitudine svetta tra le cime circostanti. Ancora una pietraia, poi finalmente la laguna dove galleggiano centinaia di piccoli iceberg arenati sulla riva in attesa di sciogliersi al sole. Il cielo è terso e le raffiche di vento rendono insicuro ogni movimento.
Di fronte a me il Cerro Torre si specchia imponente nelle acque della laguna. Resto immobile ad osservarlo con la gola che trema. La ragione principale per la quale è considerata una delle montagne più impegnative da scalare è l’imprevedibilità del tempo. Le perturbazioni che giungono dall’Oceano Pacifico lo possono avvolgere in poche ore in una violenta e inesorabile stretta di gelo, vento e nuvole, e tenerlo nascosto per settimane agli occhi del mondo. Non basta la tecnica per scalarlo, sono necessarie tenacia e fortuna. La stessa fortuna che sento di avere in questo momento mentre lo ammiro e lo fotografo. Non posso fare a meno di pensare a ciò che provò Alberto Maria De Agostini quando lo oltrepassò e per la prima volta si trovò di fronte al Campo de Hielo Sur, un incredibile mare di ghiaccio che si estende per centinaia di chilometri tra i confini di Cile e Argentina. La storia dell’alpinismo resta per sempre incisa nelle rocce, ed è da quelle pareti verticali che sembra di sentire echeggiare gli improperi e le bestemmie di Cesare Maestri che con rabbia lancia la sua ennesima sfida al mondo. Poi penso allo sguardo mite e determinato di uno dei più gradi alpinisti di sempre, Walter Bonatti che dovette rinunciare all’impresa solo perché anticipata logisticamente di pochi giorni da quella del rivale trentino. Ogni volta che nelle sue interviste nominava il Cerro Torre, si poteva riconoscere la forma inconfondibile della celeberrima montagna sudamericana riflessa nel luccichio dei suoi occhi. Ma l’ultimo pensiero va a chi in cima ci arrivò davvero e da quel momento decise di non lasciare più la Patagonia. Casimiro Ferrari, alpinista schivo, discreto e generoso, fu il capospedizione che insieme ai “Ragni di Lecco” riuscì ufficialmente nell’impresa. Il 13 gennaio del 1974 superò anche la calotta di ghiaccio e dalla cima sollevò le braccia al cielo per poter finalmente urlare al mondo di aver conquistato la “montagna impossibile”.
Il momento dello scatto
Trovare il Cerro Torre in condizioni simili ha lo stesso sapore di ritrovarsi seduti su un fuoristrada al fianco di un leopardo africano intento a portare a termine il suo agguato.
Il vento aveva resto l’aria tanto nitida da confondere le distanze. Sembrava di poter toccare la roccia allungando semplicemente una mano. Per donare maggior intensità a colori e contrasto installai sull’obiettivo un filtro polarizzatore e per evitare gli scrolloni laterali, dovuti alle raffiche del vento, feci uso del treppiede. Provai diverse inquadrature e alla fine cercai un equilibrio tra la montagna principale e quelle che la circondavano, in quanto l’insieme evidenziava maggiormente le proporzioni reali. Impostai un diaframma mediamente chiuso, in modo da sfruttare sia la qualità di nitidezza delle lenti che la profondità di campo. Non mi restò poi che trovare il giusto compromesso tra tempo di scatto, sufficientemente veloce per non ottenere un’immagine mossa o micromossa, e sensibilità minima del sensore (ISO), in modo da garantire un’immagine priva di rumore elettronico.
Dati tecnici
Corpo macchina: Nikon Z6
Obiettivo: Nikon 70/200 f2,8
Lunghezza focale al momento dello scatto: 200 mm
Apertura diaframma: F 16
Tempo otturatore: 1/200 sec.
Compensazione esposizione: 0
Sensibilità sensore: ISO 250
Modo di ripresa: A (priorità di diaframmi)