Ruma pohon, le case sugli alberi degli ultimi cannibali
Il trekking è molto più faticoso di quanto avessi previsto. Per diversi giorni non ho trovato acqua potabile e cibo. La pentola in alluminio recuperata in uno dei primi villaggi attraversati mi permette di far bollire l’acqua raccolta nelle paludi per renderla potabile e andare avanti. La legna bruciata le trasmette il gusto e l’odore del carbone, rendendola disgustosa. Il primo litro lo bevo sempre con avidità non appena la temperatura me lo permette. I quaranta gradi dell’aria, umida e appiccicosa, ne rendono ancora più lento il processo di raffreddamento e contribuiscono ad aumentare in me il desiderio di una qualsiasi bevanda fresca e non stomachevole. Ieri, dopo diversi giorni di digiuno totale, una donna mi ha offerto un ananas in cambio di qualche rupia, così ho ritrovato la forza per poter proseguire fino a sera. L’aspetto più impegnativo del cammino in questa regione, battezzata dai missionari “l’inferno del sud”, è l’attraversamento delle tante distese di palme. Per evitare di camminare nell’acqua fino a vita i Korowai (popolo della Papua Indonesia, conosciuto sia per essere l’ultimo sulla Terra a praticare il cannibalismo che per vivere in capanne costruite su piante alte più di 30 metri) abbattono gli alberi circostanti e utilizzano i tronchi come passerelle sospese. Le dimensioni spesso ridotte del diametro dei tronchi e la pioggia costante, che li rende dannatamente scivolosi, rappresentano una vera sfida per un comune mortale. Le suole supertecnologiche dei miei scarponcini vengono costantemente e impietosamente umiliate dall’agilità con cui i locali saltellano a piedi nudi da un tronco all’altro come equilibristi da circo, trasportando sulla testa pesanti ed ingombranti carichi.
Ogni mattina mi trovo nella condizione di dover cercare nuovi portatori e una nuova guida. Solitamente spariscono sera stessa, non appena raggiunto un villaggio, forse perché sufficientemente soddisfatti della paga che per diversi giorni gli permetterà di comperare il tabacco o forse perché troppo stanchi per proseguire con lo stesso ritmo, o forse per entrambe le ragioni. La guida che mi sta accompagna (che come quelle dei giorni precedenti conosce pochissime parole di indonesiano) sembra certo di portarmi a visitare una ruma pohon (casa sugli alberi). Sicuramente conosce il significato della parola indonesiana perchè dopo avermela sentita nominare ha indicato la cima di un albero e mi ha chiesto di seguirlo.
Iniziamo un nuovo trekking tra le paludi e dopo diverse ore di cammino la mia guida si ferma e alza lo sguardo verso il cielo. Circondata da una fitta foresta di altissimi baniani appare una capanna fatta di piccoli tronchi. La vegetazione sulla cima degli alberi circostanti la rende difficile da individuare. Mentre la guida si riposa io mi muovo tra tronchi abbattuti e acque stagnanti, con lo sguardo rivolto verso la vertiginosa costruzione in cerca di una prospettiva che mi soddisfi per fotografarla. Le sanguisughe non mi danno tregua, attaccandomi sia dal terreno che dalle piante. Il cielo si apre e alcuni raggi di sole penetrano timidi tra gli alberi. La casa non rappresenta più il mio il mio pensiero principale, ora la ricerca si sposta su tutto ciò che la circonda. Realizzo lo scatto che cercavo e torno dalla guida che sorride vedendomi soddisfatto. Ci aspettano altre due ora di marcia per raggiungere il villaggio sulle rive del fiume, dove cercherò una canoa per proseguire il viaggio.
Il momento dello scatto
Una volta raggiunta l’area interessata il problema fu trovare una prospettiva che evidenziasse la distanza tra il terreno e la casa. Dovevo inoltre tenere conto della direzione e dell’intensità della luce che filtrava tra la vegetazione. La foresta era fitta e le piante in primo piano creavano confusione. Camminai molto per trovare uno spazio che offrisse una buona visuale.
Definito il punto di ripresa utilizzai un obbiettivo super grandangolare (17/35 f2,8 su un corpo FX) e impostata la macchina fotografica in modalità di ripresa in manuale, regolai il diaframma a F16 per avere grande profondità di campo (quindi per avere a fuoco il maggior numero di soggetti all’interno del fotogramma). Calcolai l’esposizione prendendo in considerazione le parti più illuminate dei tronchi e del blu del celo, in modo da non avere aree bruciate. Nonostante la luce fosse scarsa non si rese necessario l’uso del cavalletto (tempo di scatto 1/160 di secondo), grazie anche alla ridottissima lunghezza focale dell’obbiettivo utilizzato (17 mm).
Dati tecnici
Data: 12 Gennaio 2016
Corpo macchina: Nikon D3s
Obiettivo: Nikon 17/35 f2,8
Apertura diaframma: F18
Tempo otturatore: 1/160
Sensibilità sensore ISO 200
Flash: no
Modo di ripresa: M (manuale)