L’albero di marmitte
È agosto 2011 e mi trovo un po’ perso tra le strade di Soweto, ex baraccopoli nei pressi di Johannesburg, simbolo oggi di un Sud Africa democratico (o quasi), in cerca del museo Nelson Mandela. Con me ho tre compagni di viaggio, Lucia, Andrea e Federica (“Protopargo” per noi amici), che per la prima volta visitano quello che viene conosciuto come il Paese Arcobaleno. Per evitare inutili allarmismi continuo a chiacchierare spensieratamente percorrendo l’ampio viale che sembra rigirarsi continuamente su se stesso, certo che prima o poi troverò un riferimento conosciuto. All’improvviso ci imbattiamo in un “albero di marmitte” a lato della strada. Luccica illuminato dai raggi del sole africano come una scultura metallica in attesa di arrugginire. Dimentico il problema “orientamento”, inchiodo e mi avvicino alla magica scultura. Non lontano da noi quattro uomini con tuta da lavoro stanno recuperando (o per meglio dire, cannibalizzando) pezzi di vario genere dall’interno di un’auto mezza demolita. Mi avvicino a quello che sembra essere il capo e gli chiedo chi è l’artefice dell’albero di marmitte. Interrompe il suo lavoro, si dirige verso di me e con forte accento portoghese mi dice che ci troviamo nella sua officina e che l’albero di marmitte rappresenta la vetrina per attirare i clienti. Gli chiedo se è mozambicano, per via dell’accento. Lui annuisce sorridendo, poi gli chiedo se possiamo fotografare la sua “vetrina”. Annuisce nuovamente preoccupandosi solo del fatto che le foto potrebbero creargli problemi se presentate alla polizia. Rispondo che può stare tranquillo e che siamo solo interessati alla sua opera d’arte. Iniziamo a scattare un po’ di foto da diverse angolazioni in cerca di luci e riflessi. Poi mi fermo ad osservare la struttura e la immagino come fosse lo schienale di un trono. Gli chiedo quindi se possiamo utilizzare uno dei sedili dell’auto destinata alla demolita per fare altre foto. Annuisce simpaticamente per l’ennesima volta, con lo sguardo di chi inizia a pensare di avere a che fare con dei pazzi. Ma ogni trono ha bisogno del suo re, quindi non esito ad invitarlo a sedersi sul sedile e abbassandomi fino a terra cerco un’immagine che escluda il traffico e le case retrostanti, per dare la sensazione di trovarci in mezzo a un deserto, in fondo con la fotografia si può anche un po’ barare…
Il momento dello scatto
Impostato un diaframma aperto per dare più importanza al soggetto, diressi il flash (sul quale montai il suo diffusore) verso l’alto per schiarire leggermente le ombre sul viso del soggetto senza illuminarlo troppo. L’esposizione la affidai al matrix (con modo di esposizione a priorità di diaframmi), senza sovra o sotto esporre, grazie ad una situazione di luce piuttosto facile. Scattai diverse foto parlando con il soggetto di fronte a me. Volevo uno sguardo serio, non volevo sorrisi, così gli chiesi della sua situazione in Sud Africa e della sua famiglia in Mozambico. Si dimenticò di essere di fronte ad una macchina fotografica e raccontò una parte triste della sua vita, simile a quella di molti mozambicani emigrati in Sud Africa per trovare lavoro. Oltre a rappresentare uno strumento per documentare, in questa circostanza, come spesso accade in Africa (e non solo), la fotografia si trasformò in un veicolo per conoscere in modo diretto una realtà che diversamente sarebbe passata inosservata.
Dati tecnici
Corpo macchina: Nikon D2X
Obiettivo: Nikon 17/55 f2,8
Apertura diaframma: F7
Tempo otturatore: 1/500
Sensibilità sensore ISO 100
Flash sb 800: colpo di luce diretto verso l’alto con diffusore.
Modo: A (priorità di diaframmi)