Lockdown a inizio Novecento sull’isola di Pasqua
Dopo sedici ore di volo intercontinentale (Milano – Madrid – Santiago del Chile), sommate a un’attesa di alte nove a Santiago del Chile dedicate a una riunione con uno sponsor locale interessato a partecipare alla pubblicazione del mio libro, più altre cinque abbondanti di volo necessarie per raggiungere l’isola, non dovrei pensare ad altro che a un letto dove riposare. Invece, non appena atterrato sulla piccola Isola mi lascio sedurre dal gradevolissimo clima tropicale, accompagnato da una brezza che porta con sé l’odore del mare. A rendere ulteriormente più piacevole la situazione contribuisce un gruppo di giovani donne che danzando ai piedi della scaletta dell’aereo porgono il loro benvenuto, omaggiando tutti i turisti con una coloratissima ghirlanda di fiori. Cedo così alla tentazione di abbandonare frettolosamente i bagagli per dirigermi scarico di ogni peso verso la spiaggia di Hanga Roa ad assistere al mio primo tramonto sull’Isola di Pasqua. È proprio quando il sole scende al di sotto della linea dell’orizzonte che sento giungere da una casa alle mie spalle un ritmo tribale di tamburi accompagnato da canti e da sordi calpestii del terreno che lasciano immaginare i movimenti di una danza. Vorrei avvicinarmi per curiosare, ma le energie iniziano a venir meno e il sonno prende il sopravvento facendomi prendere la direzione dell’hotel. Guardo ancora una volta la linea dell’orizzonte che si confonde sempre più tra il cielo e il mare. Nel mio immaginario l’Isola di Pasqua è uno degli ultimi paradisi presenti sulla Terra, dove tutto vive in armonia e l’unico pensiero è rappresentato dai violenti acquazzoni che di tanto in tanto la travolgono.
A causa del jet-leg mi fa sveglio quando fuori è ancora buio. Doccia, colazione e partenza immediata in direzione del vulcano Orongo, a sud dell’isola dove mi fermerò fino a pomeriggio inoltrato. Terminata la giornata e consumata la cena, percorro le stradine di Hanga Roa. All’improvviso l’aria inizia nuovamente a vibrare scossa dal suono dei tamburi. Cambio direzione e seguo la musica. In pochi istanti mi trovo di fronte ad una staccionata fatta di assi di legno sufficientemente distanziati tra loro da permettermi di intravedere cosa accade all’interno. I muri colorati della casa a palafitta, che sovrasta un piccolo cortile, riflettono la luce del falò che arde inquieto circondato da una fila di pietre. Busso al portone e urlo per farmi sentire, ma il suono dei tamburi rende vano ogni mio tentativo di attirare l’attenzione. Ripongo l’attrezzatura fotografica nello zaino, in modo da non risultare il solito intruso cacciatore di anime umane, e appoggio la mano al cancello che non oppone alcuna resistenza. Di fronte a me una quindicina di ragazzi e ragazze locali chiacchierano noncuranti della mia presenza, mentre altri tre suonano i tamburi. Uno dei percussionisti mi nota e si blocca. Gli altri due lo fissano per qualche istante, poi seguono il suo sguardo fino a puntare gli occhi su di me. Non smettono di suonare, ma il ritmo cambia. Uno ad uno tutti i presenti si girano nella mia direzione. Alzo una mano in segno di saluto, mostrando il mio sorriso più amichevole, poi alzo anche l’altra mano per scusarmi per l’illecita intrusione. Faccio affidamento al mio istinto per individuare i padroni di casa. Mi avvicino a una coppia e mi giustifico spiegando che avevo provato a farmi sentire da dietro il cancello ma che la musica era troppo forte. Dicono che non devo preoccuparmi e che posso restare con loro. Terminati i soliti convenevoli gli parlo del progetto al quale sto lavorando, spiegando che vede anche la promozione della loro isola e della loro cultura. Dimostrano entusiasmo e a loro volta mi parlano della loro attività di musicisti, mi raccontano le loro tradizioni, il loro passato e ciò che si aspettano dal futuro. Si lamentano soprattutto del fatto che i ricchi tour operator cileni non li coinvolgono in alcun modo, se non lasciandoli esibire di tanto in tanto con le loro danze per raccogliere qualche mancia.
Dalla scala che porta all’abitazione scende una donna anziana che si avvicina a me con una caraffa e un bicchiere. È un mix di frutti tropicali aromatizzati con una bevanda alcolica. La signora si unisce a noi e racconta di quando era giovane e Hanga Roa era circondata da un muro che nessuno poteva oltrepassare. Era stato eretto per evitare che i locali si muovessero liberamente sull’isola, in modo da evitare la trasmissione della peste che secondo l’amministrazione girava in paese. La verità era che l’intera isola era stata affittata ad una compagnia laniera scozzese e per paura che i locali potessero rubare le pecore, tutta la popolazione era stata reclusa nell’unico centro abitato. Per rendere la situazione più drammatica e veritiera, pare che alcuni malati di peste fossero “casualmente” apparsi in città (si dice che fossero di origine peruviana) con lo scopo di infettare i locali e giustificare la chiusura.
Fu così che all’intera popolazione indigena non fu permesso di muoversi all’interno dell’isola dal 1897 al 1953. Anni duri, che tutti gli anziani ricordano per aver perso la loro libertà, la loro indipendenza, la loro dignità. Alcuni tentarono la fuga via mare, molti non vennero mai più ritrovati, pochissimi riuscirono a raggiungere miracolosamente le isole Cook a circa 5.000 chilometri di distanza. Prima di partire mi ero informato sulla storia recente dell’isola, ma sentirla raccontare da chi l’ha vissuta in prima persona cambia la percezione di quanto accaduto.
I giovani che oggi cantano e ballano lottano per ottenere l’indipendenza dal Cile che a detta loro non ha fatto altro che sfruttare l’isola promuovendo un turismo sempre più selvaggio che non offre alcuna prospettiva ai nativi. Dicono che le loro origini appartengono alle isole della Polinesia e che non hanno nulla da spartire con il continente sudamericano.
Mi chiedono di raccontare al mio Paese la loro storia, la storia vera e vergognosa dell’isola di Pasqua, conosciuta quasi esclusivamente per le sculture in pietra erette dai loro antenati.
Chiedo se posso scattare qualche foto ai ragazzi mentre danzano. Il permesso giunge insieme a un nuovo bicchiere di frutta e alcol. Alcuni di loro si dipingono il corpo con intrugli di terra colorata e acqua. Poi danzano e cantano tutti insieme al ritmo dei tamburi. Cantano nella loro lingua pronunciando parole di libertà, evocando i loro antenati, con la speranza di poter un giorno tornare ad essere gli unici padroni della loro isola.
Il momento dello scatto
Avrei voluto scattare con la sola illuminazione del fuoco, ma la luce non era sufficiente per ottenere un’immagine di qualità. Inoltre, le apparecchiature fotografiche di quegli anni non permettevano di utilizzar sensibilità (ISO) particolarmente elevati, così mi affidai all’efficientissimo flash Nikon SB800 in modalità TTL.
Impostai il MODO di scatto manuale per essere certo del controllo su tempi, diaframmi, e sensibilità del sensore, certo che il flash avrebbe recuperato eventuali mancanze. Inoltre lo sfondo non era entusiasmante, così mi avvicinai il più possibile alla scena per esser certo che il flash, montato sul corpo macchina, si limitasse a illuminare i due soggetti in primo piano, lasciando nero ciò che stava alle loro spalle.
Optai per i due ragazzi piuttosto che per chi stava danzando nel cortile in quanto trovavo i loro gesti più naturali e i loro occhi più concentrati e meno disturbati dalla mia presenza. Misi a fuoco il soggetto più vicino a me e impostai un diaframma non troppo chiuso (f9) per assicurarmi una discreta situazione di fuoco anche sul soggetto più lontano.
Dati tecnici
Data: 19/04/206
Corpo macchina: Nikon D2x
Obiettivo: Nikon 17/55 f2,8
Lunghezza focale al momento dello scatto: 17mm
Apertura diaframma: F 9
Tempo otturatore: 1/100 sec.
Compensazione esposizione: 0
Sensibilità sensore: ISO 200
Flash: sb 800 modalità TTL (compensazione +/- 0)
Modo di ripresa: M (manuale)