Note dalla Papua Indonesia
Abbiamo raggiunto Senggo dopo sei ore di navigazione a bordo di una traballante canoa in legno. Aver concluso il viaggio senza intoppi ha del miracoloso, vista la spesa coltre di ruggine che ricopre tutto il motore. Siamo scesi lungo il fiume Eilanden, poi abbiamo seguito il Pulau fino a imboccare un ultimo corso d’acqua di cui nessuno conosce il nome. Partiti ieri da Basman, tre ore prima del tramonto, siamo arrivati a notte fonda a Senggo avvolti da buio, nebbia e umidità. Non appena calato il sole mi ero sistemato nell’unica posizione che mi permettesse di riposare e nonostante la mia testa fosse poggiata al motore, tutt’altro che silenzioso, ero caduto in un sonno profondo, stremato dalla fatica dei giorni precedenti. Ero infatti arrivato a Basman dopo aver attraversato a piedi l’intero ”Inferno del Sud”, come venne battezzata la regione dai primi missionari mandati qui in esplorazione negli anni Settanta. Sono i territori dei popoli Korowai, noti al mondo per essere stati gli ultimi cannibali (si dice che ancora oggi la pratica non sia stata completamente abbandonata nei villaggi più remoti) e per le loro abitazioni costruite a decine di metri sugli alberi. Ho camminato per otto giorni tra paludi e foreste, facendomi accompagnare da guide e potatori che non erano altro che gente locale conosciuta su momento e disposta ad aiutarmi in cambio di un compenso. Le uniche parole che riuscivamo a comprendere reciprocamente erano i nomi dei villaggi, mentre per il compenso scrivevo sul mio taccuino quanto ero disposto a pagare in rupie per il servizio. Dopo aver raggiunto la meta richiesta, ed aver ricevuto quanto concordato, questi sparivano puntualmente lasciandomi nell’incognita della ricerca di nuovi aiutanti disposti ad accompagnarmi il giorno successivo presso un nuovo villaggio. Per l’intera attraversata l’attrezzatura fotografica è stata trasportata in uno zaino avvolto in due sacchi dell’immondizia, acquistati a Wamena, per essere protetta dai violentissimi acquazzoni che quotidianamente mi hanno accompagnato. Il prezioso carico veniva trasportato sulla testa dei portatori che così facendo si riparavano dall’acqua. Quando decidevo di fotografare fermavo il gruppo, mi facevo consegnare il sacco, lo aprivo per accedere all’attrezzatura, scattavo e riponevo il tutto al suo posto. Se il cielo non era particolarmente minaccioso tenevo a tracolla almeno un corpo macchina con un obiettivo grandangolare. Molto spesso mi sono trovato nella situazione di dover camminare in equilibrio su lunghi tronchi sospesi a un paio di metri dagli acquitrini, temendo seriamente per l’attrezzatura fotografica.
L’incontro con il barcaiolo che mi ha portato fin qui è stato casuale. Stavo scattando alcune foto sulle sponde del fiume, speranzoso che prima o poi avrei trovato qualcuno disposto a offrirmi un passaggio per raggiungere un qualsiasi villaggio nella foresta dove fosse presente una pista d’atterraggio. Lui doveva andare a Senggo (dove sapevo era presente una pista d’atterraggio) e aveva bisogno di qualcuno disposto ad acquistare del carburante per riempire il serbatoio assetato della sua canoa. Nonostante l’impossibilità nel comunicare, per via della lingua, l’accordo tra noi fu chiaro e immediato.
Senggo è un insieme di palafitte traballanti in legno collegate tra loro da precarie passerelle. Sarà stato per via della stanchezza, del buio e della nebbia, ma appena arrivato ho provato la sensazione che il tutto potesse sgretolarsi in un istante sotto i miei piedi e sparire per sempre.
Ora, con le luci dell’alba, la situazione sembra molto più stabile, nonostante sia sufficiente il passaggio di due bimbi che si rincorrono a far oscillare paurosamente la passerella dove ci troviamo. Entriamo in un chiosco che offre colazione a base di caffè, riso e ananas; un lusso inaspettato per me dopo giorni di digiuno quasi totale (per l’intera durata del trekking non ho trovato cibo per sfamarmi ad esclusione di un paio di ananas). Mentre ci dirigiamo verso l‘uscita del villaggio mi fermo e chiedo al barcaiolo quanto devo pagare per il suo servizio oltre al costo già pagato del carburante. Lui estrae una biro dal suo elegante borsello in pelle marrone e scrive quanto dovuto sul palmo della sua mano, come fosse un’agenda, ripetendo il gesto della sera precedente quando si era presentato col suo nome. Infine aggiunge il suo numero di telefono.
Pago il mio debito, trascrivo il suo numero sul mio taccuino, gli stringo la mano e torno in camera a raccogliere i bagagli. Esco nuovamente in cerca di una strada sulla terra ferma e individuo un ragazzino che con il suo scooter offre il servizio di moto taxi. Raggiunta la pista d’atterraggio mi siedo in terra, con la schiena appoggiata alla recinzione, in paziente attesa che arrivi un aereo diretto verso una nuova e sconosciuta destinazione.
Il momento dello scatto
Quella mattina mi svegliai stanco come quando mi ero coricato nell’amaca qualche ora prima. Decisi comunque di portare con me l’attrezzatura fotografica nonostante fossi solo in cerca di un locale dove rifocillarmi. A tracolla avevo la D3s con un super grandangolare. La nebbia avvolgeva l’intero villaggio e la luce dell’alba stentava ad illuminare le palafitte. Speravo di incontrare qualcuno per fare qualche scatto, ma a quell’ora il villaggio si presentava deserto. Quando il barcaiolo iniziò a scrivere sulla sua mano mi resi conto quanto sarebbe stato importante per me quel momento. Rappresentava la fine di un’avventura e l’inizio di un nuovo viaggio. Al tempo stesso mi ricordava un gesto visto innumerevoli volte durante i miei viaggi in Africa. Senza riflettere su impostazioni e tecnica, “spalancai” il diaframma (evitando il fine corsa per questioni di qualità dell’immagine) in modo da sfocare lo sfondo (quando non posso prevedere un soggetto o una scena o una determinata tipologia di immagine imposto il modo di scatto a priorità di diaframmi e autofocus singolo sul punto centrale). Scattai quella foto in modo istintivo, prima che lui si accorgesse di ciò che stavo facendo, così da evitare qualsiasi sua razione in modo da catturare l’autenticità del momento.
Dati tecnici
Data: 31 Gennaio 2016
Corpo macchina: Nikon D3s
Obiettivo: Nikon 17/35 f2,8
Lunghezza focale al momento dello scatto: 17 mm.
Apertura diaframma: F 4
Tempo otturatore: 1/250
Compensazione esposizione: 0
Sensibilità sensore: ISO 800
No Flash
Modo di ripresa: A (priorità di diaframmi)