That’s Africa!!!

C’è una terra in Namibia, al confine con l’Angola, dove pochissimi viaggiatori si avventurano. È il Kaokoland occidentale. Per raggiungerlo è necessario percorrere piste che portano al limite del ribaltamento anche i fuoristrada più preparati. Il Van Zyl’s Pass è il passaggio più temuto di tutto l’itinerario. Sono numerose le storie di intrepidi driver che hanno perso il controllo del loro mezzo a causa di una discesa troppo impegnativa. L’ultimo tratto risulta tanto ripido e accidentato che per attraversarlo è necessario percorrerlo prima a piedi per studiare un passaggio sicuro. Le buche che si formano dopo ogni passaggio devono essere riempite con grandi pietroni, o addirittura utilizzando le ruote di scorta dei mezzi stessi, in modo da evitare di finirci dentro e raschiare rovinosamente il fondo dei veicoli. Nei passaggi più delicati risulta indispensabile l’aiuto di un compagno fidato ed esperto che a qualche metro di distanza dal cofano indichi gli spostamenti millimetrici da effettuare per “mettere” le ruote nel posto giusto. Arrivati in fondo si entra nel Marienfluss, una vallata di erba gialla, alta quanto il cofano, che al tramonto si trasforma in una distesa dorata che si perde all’orizzonte. Una sorta di paradiso dove di tanto in tanto si vedono sbucare teste di giraffe, zebe, orici e struzzi. Da qui sono necessari diversi giorni di viaggio per tornare ad incontrare strutture, rivenditori di qualsiasi genere, compresi quelli di combustibile, e soprattutto altri turisti. Si può viaggiare solo in totale autosufficienza, con mezzi preparati e provvisti dell’attrezzatura necessaria per risolvere ogni emergenza.
Sono partito da più di due mesi con Edoardo Miola (anche lui fotografo NPS) da Cape Town e seguendo la costa orientale del Sud Africa abbiamo percorso la Garden Route fino a raggiungere Durban, i parchi Hluhluwe e Santa Lucia. Abbiamo risalito l’altipiano del Lesotho dopo aver attraversato la catena montuosa del Drakensberg per poi entrare in Swaziland e nel parco sudafricano del Krugher, attraversandolo da Sud a Nord. Spostandoci verso ovest abbiamo raggiunto il Kgalagadi Transfrontier National Park e siamo entrati in Namibia. Muovendoci in direzione nord siamo arrivati sul fiume Kunene, al confine con l’Angola da dove abbiamo iniziato il nostro lento cammino di rientro verso Cape Town.
I riferimenti riportati sulla cartina del Kaokoland occidentale sono vaghi e curiosi, soprattutto per chi esplora la regione per la prima volta. Lungo l’itinerario tracciato a penna rossa è previsto ad esempio il passaggio a “red drum”, che appare indicato sulla mappa con gli stessi caratteri del capoluogo Opuwo. Non si tratta però di un paese e nemmeno di un villaggio, è semplicemente di un bidone rosso abbandonato all’incrocio di due piste sterrate (anche un semplice bidone vuoto, posizionato in mezzo al nulla come puro riferimento, può trasmettere una sensazione di sicurezza impagabile, soprattutto quando l’orientamento non poteva essere affidato alla tecnologia gps).
Il nord della Namibia è famoso per essere abitato dalle popolazioni himba, soprattutto per via delle loro bellissime donne dalla pelle apparentemente rossa, in quanto costantemente cosparsa con un denso impasto protettivo fatto di terra (rossa), burro e cenere. Nei giorni precedenti avevamo incontrato diversi villaggi himba, dove era risultata evidente la triste situazione di degrado sociale che si crea ogni volta che la civiltà moderna estende i propri confini. Il totale isolamento del Kaokoland occidentale fa sì che la cultura himba abbia invece mantenuto vive le proprie tradizioni, tramandandole di generazione in generazione senza risentire di alcuna influenza occidentale. Non ci aspettavamo di vedere ancora donne e bambini così impauriti dall’arrivo di un fuoristrada da scappare lasciando incustodito il loro prezioso bestiame. Per questioni di rispetto e per farci accettare nei villaggi, abbiamo viaggiato portato diversi pacchi di riso e di farina di mais, più qualche accendino. Un semplice modo per offrire un aiuto in cambio di qualche scatto fotografico.
Continuiamo a scendere verso sud. Il prossimo riferimento da raggiungere indicato sulla cartina è Orupembe. Da lontano intravediamo una costruzione che si rivelerà essere una minuscola bottega provvista di qualche scatola di carne e due bottiglie di whisky. Al lato, un camioncino visibilmente inclinato su un lato con dentro una donna locale con in braccio un bimbo piccolissimo dai lineamenti e dal colore un po’ meno locali. Scendiamo dal fuoristrada e ci avviciniamo alla donna per chiedere se necessita aiuto. Chinati, vicino alla ruota posteriore sinistra del furgoncino, due presunti meccanici, armati di qualche chiave inglese e un paio di cacciaviti arrugginiti, sono intenti a litigare con un cuscinetto. In quel momento appare un uomo le cui origini hanno ben poco a che fare con l’Africa e che risulta essere il sosia definitivo (e un po’ inquietante) di Jack Nicholson. Viene verso di noi illuminato da un sole accecante. Il suo sorriso, che farebbe invidia allo stesso attore nordamericano nell’interpretazione di Joker, lo dipinge come l’essere più felice della Terra. Tentiamo di chiedergli se va tutto bene, se ha problemi con il suo camioncino, se possiamo essere d’aiuto, ma lui non ci concede il tempo di pronunciare nemmeno la prima parola del nostro pensiero. Come un uragano ci travolge con la storia degli ultimi giorni di viaggio che hanno portato lui, sua moglie e il suo bimbo a Orupembe. Nonostante non si sia propriamente trattato di un viaggio di piacere e tantomeno privo di imprevisti, esprime ogni sua singola parola con lo stesso entusiasmo di un bambino che elenca i regali di Natale appena ricevuti. Arrivato finalmente a Orupembe, tre giorni fa per fare una consegna alla bottega, ha rotto il cuscinetto della ruota del suo camioncino, così ha atteso l’arrivo di qualcuno che potesse andare a reperire il meccanico più “vicino”, che distava più di un giorno di viaggio da Orupembe. Ora il meccanico è arrivato, anche se con il ricambio sbagliato. Lui e la sua famiglia dovranno attendere probabilmente altri due o tre giorni, ma come continua a ripetere: “That’s Africa!!! Look around, that’s so beautiful!! That’s what I always wated in my life!!!”. Dice che ogni giorno speso in quella regione dimenticata da Dio è per lui un regalo immenso. Niente potrà mai essere paragonabile a quei momenti che solo l’Africa può donare. Dice che non dobbiamo preoccuparci, che va tutto bene, che è tutto a posto. Mentre ci allontaniamo vediamo ancora negli specchietti il suo sorriso che ci saluta esclamando nuovamente: “That’s Africa my friends!!! That’s so beautiful!!!

 

Il momento dello scatto

Il paesaggio era meraviglioso, ma non esistevano piste da percorrere col fuoristrada per raggiungere le colline a est della valle e riprenderla dall’alto con la luce alle spalle. Decidemmo quindi di lasciare il mezzo e proseguire a piedi. Ci arrampicammo fino alla cima di una collina che avevamo individuato tenendo conto della direzione della luce e delle difficoltà del percorso. Arrivati sulla cresta, carichi di sudore, ci spostammo di qualche centinaio di metri per migliorare ulteriormente l’inquadratura. Con me avevo una Nikon D2cx con un obiettivo 17/55 f2,8 e una D300 con il 10,5 f2,8 fisheye acquistato poco prima di partire per la nuova avventura africana. Scattai foto con le due macchine, ma alla fine mi convinse maggiormente il risultato ottenuto con il fisheye. In alcuni casi con la fotografia di paesaggio è possibile annullare la deformazione classica del fisheye. È però necessario un posizionamento micrometrico del corpo macchina che deve collocare perfettamente la linea virtuale dell’orizzonte in mezzo all’inquadratura. In questo modo, se al di sopra o al di sotto della linea virtuale dell’orizzonte non esistono evidenti riferimenti orizzontali o rettilinei o comunque delle forme definite, la deformazione non risulterà in alcun modo evidente.
L’intensità della luce, la focale cortissima e l’assenza del vento mi permisero di scattare a mano libera in quanto, impostando un diaframma chiuso per evidenziare ogni dettaglio, potevo contare su una velocità di scatto dell’otturatore di 1/200 di secondo, più che sufficiente per scongiurare qualsiasi effetto mosso o micromosso.

 

Dati tecnici

Data: 18 Agosto 2009
Corpo macchina: Nikon D300
Obiettivo: Nikon 10,5 f2,8
Lunghezza focale al momento dello scatto: 10,5 mm.
Apertura diaframma: F 16
Tempo otturatore: 1/200
Compensazione esposizione: 0
Sensibilità sensore: ISO 200
Modo di ripresa: A (priorità di diaframmi)

 

 

Viaggia con Davide Pianezze: www.fattoreulisse.com